Negli ultimi anni, il termine woke è diventato un’etichetta sempre più diffusa nel mondo dell’intrattenimento, in particolare nei videogiochi. Ogni volta che un titolo introduce elementi di diversità o affronta tematiche sociali, si scatena un’ondata di critiche da parte di una fetta di pubblico che vede in queste scelte una minaccia alla “tradizione” del gaming. Ma è davvero così? Oppure ci troviamo di fronte a una polemica sterile, alimentata da una percezione distorta della realtà?
Quando un gioco diventa “troppo woke”
Alcuni esempi recenti dimostrano come il termine woke venga spesso usato in modo eccessivo e fuori contesto. Il caso di Kingdom Come: Deliverance 2 ne è un esempio lampante: il gioco è stato accusato di essere “troppo woke” per la semplice presenza di una scena di romance omosessuale completamente opzionale. Questo, nonostante il titolo mantenga l’ambientazione medievale storicamente accurata che aveva reso celebre il primo capitolo.
Allo stesso modo, Intergalactic: The Heretic Prophet ha subito critiche perché presenta come protagonista una donna asiatica, come se la semplice diversità nel cast fosse una forzatura politica e non una normale scelta narrativa. Anche il remake di Silent Hill 2 del 2024 è finito nel mirino per via di un’insegna al neon, presente anche nell’originale, ma ora improvvisamente considerata “woke” da alcuni fan.
E l’ultimo titolo a essere colpito da queste critiche è Split Fiction, un nuovo gioco cooperativo sviluppato da Hazelight Studios, il team dietro It Takes Two. Il motivo? La presenza di due protagoniste femminili.
La Risposta di Josef Fares
Josef Fares, noto per il suo approccio schietto e diretto, non è rimasto in silenzio davanti alle accuse di propaganda femminista rivolte a Split Fiction. In un video pubblicato sul canale YouTube di Fall Damage, il direttore del gioco ha risposto senza mezzi termini a chi accusava il titolo di essere influenzato dall’agenda politica progressista:
“Che c**o è questa roba? Credo sia qualcuno che reagisce al fatto che ci sono due donne. Lasciatemelo dire. In Brothers c’erano due uomini. In A Way Out c’erano due uomini. In It Takes Two c’era un uomo e una donna. Ora ci sono due donne e tutti si lamentano. Dai, ragazzi, affrontiamo la cosa: il gioco è ispirato alle mie figlie. Non mi interessa cosa avete tra le gambe, non è una cosa rilevante per me. Ciò che conta sono i buoni personaggi.”*
Le parole di Fares mettono in chiaro un concetto fondamentale: i videogiochi sono prima di tutto opere creative, e gli sviluppatori non sono interessati a battaglie culturali preconfezionate, ma semplicemente a raccontare storie coinvolgenti. L’idea che ogni decisione artistica sia frutto di un’agenda politica è una percezione errata che rischia di soffocare la diversità e la libertà creativa.
Questa tendenza a etichettare ogni cambiamento come woke solleva una domanda: le critiche riflettono davvero il pensiero della maggior parte dei giocatori o sono solo il frutto di una minoranza molto vocale sui social media?
La realtà è che i videogiochi sono sempre stati un medium in continua evoluzione. I personaggi, le storie e le meccaniche di gioco si adattano ai tempi, come è sempre successo nel cinema e nella letteratura. Nessuno si è mai lamentato del fatto che i protagonisti di molti giochi del passato fossero quasi esclusivamente uomini bianchi muscolosi, eppure oggi una minima deviazione da questo standard scatena polemiche.
I dati dimostrano che la diversità nei giochi non ha alcun impatto negativo sulle vendite. Al contrario, titoli come The Last of Us Part II, Horizon: Zero Dawn e Baldur’s Gate 3, che presentano protagonisti femminili o tematiche LGBTQ+, hanno ottenuto successo di pubblico e critica.

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